belissimo racconto by ale russo... enjoy!




Ale Russo by
Siddharth Dhanvant Shanghvi

Il Venditore di Calzini

di Alessandro Russo

Lo vedevo tutte le mattine allo stesso posto da quasi un anno. Tutte le sacrosante mattine, mentre facevo gli scongiuri  per trovare un parcheggio lungo la parte finale di Viale Giulio Cesare, quella che dà verso il Tevere, lui era lì.


Il mio tragitto quotidiano in macchina, da Monteverde a Prati, scorreva tutto sommato abbastanza piacevolmente: una mezz’ora di guida quasi a passo d’uomo, rallegrata dai programmi radiofonici del mattino e dalla bellezza di Roma, che ogni giorno offriva ai miei occhi un bel panorama vario, dal verde di Villa Pamphili, attraversata dall’Olimpica come dal sottile taglio di una lama, allo splendore che la Storia imprime sulle Mura Vaticane, in una discesa tutta curve e relativamente poco affollata sulla quale immaginavo di essere un pilota di Formula 1 al Rally di Montecarlo e non un piccolo travet di una finanziaria un po’ spregiudicata.

Insomma, tutto era perfetto. Se era estate e faceva caldo l’aria condizionata mi illudeva che fosse primavera, se era autunno ero incantato dal rossore malinconico della vegetazione e dal dondolio delle foglie dei platani portate in giro dal vento, in inverno godevo del calduccio dell’abitacolo mentre fuori pioveva, in primavera era semplicemente fantastico lasciare i finestrini aperti e sentire a volte anche in città i profumi della Natura che tornava alla vita.

Tutto questo fin quando arrivavo alla fine di Viale Giulio Cesare. Laggiù iniziava l’incubo. Era una guerra spietata tra sardine inscatolate vestite di blu. Ogni gentilezza bandita, valeva solo la regola del più veloce. A volte ci si faceva anche piccoli sgarbi e scorrettezze, facendole passare per distrazioni (No no... non l’ho vista che stava parcheggiando… vabbè lo dice lei… ma io non l’ho vista e quindi parcheggio!”).

Nell’ultimo anno la situazione però era leggermente migliorata con la risistemazione dei posti macchina e l’arrivo delle strisce blu. Paradossalmente anche pagare il parcheggio mi faceva sentire in qualche modo un privilegiato. Pagavo, quindi avevo diritto. E non tutti potevano permettersi di pagare per l’intera giornata. Pagavo e scendevo dalla macchina (una  piccola Yaris) con la stessa tronfia sicumera dell’armatore che scende dalla passerella del suo yacht a Portofino. Perché pagavo.


Era a quel punto che lo vedevo. O meglio era in quel momento che lui vedeva me e mi correva incontro. Era un ragazzone grosso e sgraziato, pesante nel camminare, con grandi orecchie a sventola e occhi sonnacchiosi, vagamente bovini. Ogni santissimo giorno che Dio metteva in terra lui era lì a ripetermi la stessa insopportabile cantilena: “Dotto’... Dotto’… accattàtevi nu’ bello paio e’ calzini…. So’ buoni, megli’e chelli de’negozi. So’buoni Dotto’, buoni assai!”

Ora, io i calzini li compro da Albertelli, da anni. Li compro lì e li pago un piccolo patrimonio, ma ne vado fiero. Sono i calzini dell’armatore gonfio e tronfio in passerella quelli che compro, non i calzini da travet. Lo so benissimo chi sono, ma lasciatemi l’illusione di potermi permettere qualche lusso. Lasciatemi credere che dei costosi calzini facciano di me un uomo ricco e soddisfatto.

Il grosso bovino dal pesante accento napoletano invece ogni giorno mi riportava coi piedi per terra, perché mi riconosceva come probabile cliente dei suoi articoli. Non scendevo da una lussuosa BMW o da una Porche aggressiva. A quelle macchine lui nemmeno si avvicinava. Ma la mia Yaris gli diceva chi ero. Ed ero perfetto per i suoi maledetti calzini da quattro soldi.

Ai primi assalti reagivo in modo imbarazzato ma cortese: “No grazie… non ne ho bisogno…”. Inventavo nuove scuse ogni giorno, un pò per non comprarli, un pò per non offenderlo con i miei continui rifiuti: “Mi dispiace, ne ho comprato 3 paia proprio ieri…” oppure “…guarda ti ho cercato 2 giorni fa che ne avevo bisogno, ma non c’eri.” 


Una tremenda bugia, perché lui era sempre lì, con la pioggia e con il sole, con il caldo e con il freddo, rincorrendo i suoi possibili clienti mentre scendevano dalle loro utilitarie iperaccessoriate, mentre io cercavo di non farmi vedere infilandomi tra le automobili in sosta e accelerando il passo con finta indaffarata nonchalance. E dentro di me una strana irritazione cresceva inconsapevolmente.


Dopo qualche settimana provavo una strana soddisfazione a schivare la sua attenzione, un certo senso di superiorità nell’evitare di incrociare il suo sguardo erbivoro e addormentato, che mi infastidiva. In quello sguardo spento vedevo tutte le possibilità del fallimento. Nella sua tiritera pubblicitaria, sempre uguale per chiunque, un orrendo presagio: “Potresti finire anche tu a vendere calzini per strada, poveraccio!”

Fu a quel punto che iniziai a rispondergli sempre peggio; prima dei secchi e distratti “No, grazie!” per poi eliminare anche il “grazie” e arrivare a un “No, no!” pronunciato a mezza bocca e quasi sempre mentro ero già di spalle.  Ogni giorno però quel no mi metteva sempre più di cattivo umore. Me lo prefiguravo ben prima di arrivare in fondo a Viale Giulio Cesare e in poco tempo aveva avvelenato anche la mia corsa di Formula 1 sulle Mura Vaticane, facendomi sentire nient’altro che una piccola sardina inscatolata vestita di blu dalle grandi pretese e con calzini eccessivamente lussuosi ai piedi.

E così arrivavo al parcheggio già gonfio di rancore per il pesante ragazzone dalle orecchie a sventola e lo sguardo bovino che mi veniva sempre incontro con un sorriso speranzoso e la parola pronta. Lo incolpavo di avermi rubato le mie piccole illusioni, di non lasciarmi sognare, di ricordarmi di essere nient’altro che un piccolo travet di una finanziaria spregiudicata e dal futuro incerto.

Iniziai a detestare la mia piccola Yaris, che trovava facilmente parcheggio (era questo il motivo per cui l’avevo comprata, no? Certo poi costava anche poco e aveva una rateizzazione conveniente, ma io l’avevo comprata perché parcheggiava ovunque… o no?) e per un momento pensai addirittura di comprarmi un motorino, idea scartata per ragioni che non sto qui a dirvi. L’unica alternativa plausibile sembrò essere quella di cambiare zona di parcheggio, ma su questo mi intestardii: non era possibile che uno stupido bovino dalle orecchie a sventola mi costringesse a cambiare le mie abitudini. Non potevo permetterlo.

Intanto non solo il piacere di quella mezz’ora in macchina la mattina era completamente sparito, ma anche il resto della mia giornata iniziava a risentirne. In ufficio ero sempre più nervoso. Oramai mi ci voleva mezza giornata buona per smaltire il fastidio che quell’assalto quotidiano mi procurava. La sua voce cantilenante, roca e dal pesante accento - “Dottò…so’buoni… accattateveli!” - mi accompagnava a lungo, facendomi sentire in colpa per ragioni a me stesso assolutamente oscure e rendendomi scontroso con i miei colleghi. Arrivai ad anticipare di una buona mezz’ora l’orario in cui uscivo di casa, ma non servì a nulla. Lui era sempre là e sembrava avere un sesto senso che lo allertava sul fatto che io stessi arrivando.

Il mio disagio si amplificò. Sul lavoro ormai ero intrattabile e i miei colleghi iniziarono a pensare che avessi qualche problema. Uscivo dall’ufficio con circospezione e questo fu notato. Qualcuno osservò che tendevo ad avere un tenore di vita superiore a quanto potessi permettermi e quindi mise in giro la voce che forse temevo la ritorsione di qualche strozzino che non avevo pagato. Ovviamente non era vero, ma i miei modi di fare da armatore di yacht impressionavano più dei miei vestiti (tranne i calzini di Albertelli non mi potevo davvero concedere molto) e la gente è sempre molto più propensa a credere al pettegolezzo che a quello che vede con i propri occhi. Uscivo con circospezione semplicemente perché lui era lì tutto il giorno e non potevo affrontarlo con la stanchezza di una giornata di lavoro sulle spalle. Temevo avrei ceduto, mi sarei arreso per stanchezza, avrei comprato i suoi calzini da due euro al paio e non mi sarei mai più regalato il piacere di andare da Albertelli.

Oramai ero preda della paura. L’ansia iniziò a invadere il mio subconscio e una notte feci un sogno orribile: ero io il venditore di calzini e per di più ero a piedi nudi. Ero io che correvo dietro agli impiegatuzzi che scendevano dalle loro lucide scatole di sardine e ad ogni no di spalle che ricevevo vedevo aumentare la mia disperazione. Fin quando vidi arrivare una enorme Mercedes, gigantesca. Sapevo che non mi dovevo avvicinare a quella macchina, ma mi misi in disparte per vedere chi ne fosse il fortunato possessore. Quando il ragazzone dalle grandi orecchie a sventola e l’inebetito occhio bovino ne scese, vestito di tutto punto e con dei magnifici calzini da smoking di Albertelli che quasi scoppiavano sui suoi polpaccioni gonfi, mi ritrovai a urlare in piedi, dritto nel letto e in un bagno di sudore.


Mia moglie si spaventò moltissimo e quella notte non riuscii a riaddormentarmi. Decisi che questa situazione non poteva andare avanti e mi girai e rigirai nel letto aspettando con ansia il mattino. Dovevo agire. Uscii con molta calma e alla solita ora, tanto per non insospettire mia moglie che, ancora terrorizzata per la nottata trascorsa, aveva già immaginato chissà quali orribili verità le stessi per rivelare. Si era accorta che non avevo chiuso occhio e già pensava ad oceani di disgrazie e di corna che si stavano per abbattere come uno tsunami sulla nostra tranquilla famigliola. Sorrisi come non facevo ormai da mesi e la rassicurai che era tutto a posto, avevo solo fatto un brutto sogno, che ormai non ricordavo neanche più.

Una volta in macchina mi misi a correre come un pazzo. Non vedevo l’ora di affrontare il mio destino, il mio carnefice, colui che mi rovinava la vita da mesi. Arrivai con 15 minuti di anticipo rispetto al solito e probabilmente qualche multa per eccesso di velocità e parcheggiai con una facilità inconsueta. Spensi il motore e aspettai di vederlo. Immobile, lo sguardo fisso nello specchietto retrovisore, non sarei sceso da quella macchina nemmeno morto se non avessi avuto la certezza che era lì.

Era lì, come sempre, e come sempre mi stava venendo incontro, col suo sorriso speranzoso, il suo sguardo ebete e i suoi modi invadenti. “Dottò, Dottò! So’ buoni, so’megli’e chelli dei negozi…Accattateveli!” Presi fiato, lo guardai coraggiosamente negli occhi ebeti e sorridenti e dissi “Te lo dico oggi e mai più: non li voglio i tuoi calzini, non li ho mai comprati e non li comprerò MAI! NON MI ROMPERE PIÙ I COGLIONI!!!

Ero andato oltre, nei modi e nelle parole. Non volevo essere volgare. Maleducato lo ero stato già da mesi dicendogli tutti quei no distratti di spalle, ma volgare mai. Mi stavo già preparando al peggio, avevo paura che quel grosso energumeno mi mettesse le mani addosso, e invece lui mi rispose sorridendomi: “Dottò… ma voi state sempre così incazzato..? Nun ce sta nu’juorno che nun ve vedo scuro, triste… Ma che tenete? State su, che la vita è tanta!”

In quel momento il suo sorriso divenne enorme… e i suoi occhi bovini improvvisamente mi apparvero saggi come quelli di un santone indiano. La vita è TANTA! Questa frase mi esplose dentro con una potenza inaspettata. La vita è tanta… non la vita è bella ma la vita è TANTA!

“Come ti chiami?” gli chiesi, quasi stordito.
“Pasquale, Dottò. Agli ordini!”
“Pasquale… ti compro i calzini. Te li compro tutti!”
“Eh Dottò… ma quelli mica sono tutti la vostra taglia…eppoi non ve li posso dare tutti, sennò io che faccio la settimana intera? Quelli nuovi mi arrivano solo la settimana prossima!”
“Hai ragione Pasquale, dammi quelli che mi puoi dare.”
“Dotto’ provatene due paia, se poi vi piacciono, se vi stanno bene, me ne comprate altri. Tenete, sono 4 euro!”
“Questi sono 5 euro Pasquale, uno di mancia.”
“Grazie Dottò, grazie tante. A domani!”

L’indomani non vidi Pasquale perché non andai in ufficio. Mi presi una settimana di vacanza e portai mia moglie a Vienna, dove voleva andare da tempo. Ci godemmo una vacanza fantastica e facemmo l’amore come non capitava da tanto. Al ritorno trovai la macchina rigata. Mi avevano rigato la macchina, mi avevano rigato lo yacht. Scoprii con sorpresa e con una felicità infinita che non me ne fregava assolutamente nulla. In fondo, anche i calzini di Albertelli si bucano. (AR)



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